domenica 9 aprile 2017

Ripensare l’azione penale obbligatoria

L’azione penale obbligatoria è uno dei principi cardine del nostro sistema penale.

Esso è l’attuazione nel concreto del principio per cui tutti siamo uguali dinanzi alla legge. Ed infatti, proprio in attuazione di questo principio di uguaglianza dei cittadini innanzi alla legge, il sistema giudiziario deve garantire parità di trattamento a tutti i cittadini, di modo che non si creino corsie preferenziali: la denuncia sporta da Tizio deve in buona sostanza avere la stessa dignità e dunque ricevere lo stesso trattamento della denuncia sporta da Caio. E questo indipendentemente da chi sia Tizio e da chi sia Caio, oltre che dal maggiore o minore disvalore del reato denunciato.

Verrebbe da dire che si tratta di un principio sacrosanto se non fosse che la realtà ci dimostra ogni giorno quanto invece il principio sia ipocrita, così come del resto è ipocrita il principio sottostante della legge uguale per tutti. Come scriveva Piero Calamandrei, nelle aule di giustizia andrebbe fatta un'errata corrige: “la legge non è uguale per tutti”.

Il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale è un principio ipocrita per varie ragioni.

In primo luogo perchè si scontra con problematiche di carattere organizzativo che purtroppo incidono pesantemente sul buon funzionamento della giustizia. Affermare che tutti siamo uguali davanti alla legge e che l’azione penale è sempre obbligatoria significa che per qualsiasi denuncia venga fatta la Procura della Repubblica competente è tenuta ad aprire un fascicolo iscrivendo la notizia di reato nell’apposito registro.
Ipotizziamo dunque una Procura sotto organico alla quale quotidianamente pervengano un numero di denunce elevato rispetto al numero di inquirenti effettivamente in servizio. Per ogni denuncia dovrà essere aperto un fascicolo e dovranno essere svolte le indagini la cui durata è per legge di minimo 6 mesi e massimo 18 mesi. All’esito dell’attività di indagine il Pubblico Ministero dovrà decidere se formulare la richiesta di archiviazione oppure rinviare a giudizio. E’ impensabile che tutte le denunce che giornalmente pervengono alla Procura seguano lo stesso iter, con le stesse tempistiche. Non è credibile che una denuncia per stalking riceva lo stesso trattamento di una denuncia per diffamazione anche se, per legge, così dovrebbe essere: diversa è l’attività di indagine, diverso l’allarme sociale e il pericolo connesso con la conseguente necessità per esempio di valutare nel caso dello stalking con urgenza anche l’applicazione di una misura cautelare.

Per quanto non venga esplicitato è sotto gli occhi di tutti che ogni singola Procura abbia un catalogo di reati ritenuti prioritari rispetto ad altri in quanto di maggior allarme sociale.

Un secondo problema connesso con l’obbligatorietà dell’azione penale è che, dal lato del cittadino che sporge denuncia, qualsiasi denuncia venga fatta è meritevole di essere esaminata con l’apertura del relativo fascicolo. Purtroppo la realtà giudiziaria dimostra come molto spesso lo strumento della querela venga ahinoi abusato, impropriamente utilizzato, con la conseguenza di gravare sul carico di lavoro dei magistrati.
Se io oggi decido di querelare Caio per un qualsivoglia motivo, anche inventato, anche il più banale o per un comportamento rientrante in ambito civilistico ma che io qualifico erroneamente come comportamento penalmente rilevante (si pensi alle truffe commerciali), metto in moto un meccanismo complesso che passa sempre e in ogni caso per l’apertura di un fascicolo, lo svolgimento di indagini, la richiesta di archiviazione, l’eventuale giudizio di opposizione all’archiviazione e, nei casi di denunce palesemente infondate, l’apertura di un nuovo ed ulteriore procedimento penale questa volta a carico dell’originario denunciante che ora si trova indagato per calunnia.

Occorrerebbe escogitare un filtro, che consente una selezione all’ingresso.
Molto spesso il cittadino si reca dai carabinieri a fare denuncia per evitare costi, che una consulenza legale inevitabilmente comporterebbe, nell’erronea convinzione di ottenere giustizia subito. Di fronte a denunce palesemente infondate la forza di polizia non può rifiutarsi di riceverle ma è tenuta, in forza dell’obbligatorietà dell’azione penale, ad acquisire la notizia e trasmetterla al pubblico ministero che a sua volta è tenuto ad aprire un fascicolo. Altrimenti, si risponde di omissione o rifiuto di atti di ufficio. Questo sistema andrebbe inevitabilmente ripensato.

Ed è una farsa che il Pm una volta ricevute le notizie di reato le tratti tutte allo stesso modo. Sarebbe una questione di onestà e trasparenza rendere esplicito il catalogo dei reati prioritari.

Ma qui si innesta un problema: a chi spetterebbe, nel caso, definire tale elenco? In virtù della separazione dei poteri verrebbe da dire al Parlamento.
Con questa domanda sollevo una questione di non poco conto, ossia quella dei rapporti tra giustizia e politica che può e deve essere valutata sotto una duplice angolazione.

In primo luogo, tenendo conto della situazione attuale. Ad oggi, di fatto, sono i Giudice che - nascondendosi dietro il principio ipocrita (per le ragioni anzidette) dell’obbligatorietà dell’azione penale - decidono nella pratica quali sono i reati di maggior allarme sociale cui dare priorità. Un uso distorto di questa discrezionalità si riscontra soprattutto nelle inchieste relative al mondo della politica, solo per fare un esempio.

In secondo luogo, ragionando in prospettiva de jure condendo, cosa succederebbe se fosse il Parlamento a decidere le priorità della giustizia? Di certo il meccanismo sarebbe più trasparente di oggi e forse più rispondente al sentire collettivo, certo bisognerà escogitare un sistema per evitare distorsioni, usi strumentali della giustizia da parte della politica (rectius della maggioranza al potere).

Cercando di trarre delle conclusioni, delle due l’una:

  • Mantenere l’obbligatorietà dell’azione penale implementando gli organici e rendendo trasparente i criteri di priorità adottati da ogni Procura (introducendo sul punto un controllo da parte del Ministero della Giustizia volto a garantire una certa uniformità)
  • Oppure abrogare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale e far sì che sia il Parlamento, magari con maggioranze qualificate volte a garantire la massima rappresentatività, a stabilire periodicamente (ogni anno o per l’intera legislatura) le priorità dell’intervento giudiziario.




6 regole sicure per fallire nel lavoro

domenica 2 aprile 2017

E questo sarebbe un Partito LIBERALE???? Solidarietà a Edoardo De Blasio


Il Ministro Madia e la tesi di dottorato

Ancora una volta il Ministro Madia fa parlare di sè.

Questa volta per motivi un po' più gravi di un gelato leccato in modo malizioso (ricorderete la stupida polemica su una rivista di gossip).

Pare che la Madia abbia copiato da altri autori nella sua tesi di dottorato. Lo fanno tutti gli studenti, direte voi. E in effetti è quello che ha sostenuto in sua difesa anche Vittorio Feltri in un editoriale: non c'è nulla di male ad ispirarsi ad altri.

Errore. Qui parla il dottore di ricerca che c'è in me nonchè il correlatore che per qualche anno ha tartassato poveri studenti di giurisprudenza.

Scrivere una tesi è una cosa seria, ancor più se si tratta di una tesi di dottorato.

Articolare un pensiero proprio, originale, argomentare in difesa di una tesi non è per nulla un gioco da ragazzi.

Non è tollerabile dare la laurea a chi copia, figuriamoci concedere il prestigioso titolo di Dottore di Ricerca.

La ricerca scientifica è una cosa seria. Un Ministro che ha copiato non è un buon esempio per i tanti giovani che con sacrificio si dedicano agli studi.

Non c'è nulla di mare a prendere spunto da altri. Ma un conto è la citazione, un conto il plagio.

Il caso Madia è la triste testimonianza che ancora una volta in Italia vincono i furbetti.